La questione verte sulla messa in attuazione dell’art.9. ter, D.L. 19.06.2015, n. 78, (convertito in L. 125/2015 – Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali. Disposizioni per garantire la continuità dei dispositivi di sicurezza e di controllo del territorio. Razionalizzazione delle spese del Servizio sanitario nazionale) contenente disposizioni in materia di Razionalizzazione della spesa per beni e servizi, dispositivi medici e farmaci. In particolare il comma 9 prevede che il superamento del tetto di spesa regionale sarà posto a carico delle aziende fornitrici di dispositivi medici, per una quota pari al 40%, nell’anno 2015, al 45% nell’anno 2016 e al 50%, a decorrere dall’anno 2017 delegando il Ministero della salute – previo apposito accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano – alla definizione delle modalità procedurali del ripiano.
In deroga alla detta norma, solo per gli anni 2015-2018, il successivo comma 9-bis (introdotto dall’art. 18, comma 1, del D.L. 09.08.2022, n. 115 e modificato dall’allegato alla legge di conversione, L. 21.09.2022, n. 142) ha previsto che il detto superamento del tetto di spesa per l’acquisto di dispositivi medici viene rilevato sulla base del fatturato di ciascuna azienda (al lordo dell’iva), e dichiarato con decreto del Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.
Le Regioni predisporranno (rectius alcune hanno già provveduto) a redigere gli elenchi degli operatori obbligati al ripiano, attraverso la verifica della documentazione contabile e per il tramite degli Enti del SSN. Ciò sulla base della ricognizione delle fatture correlate ai costi iscritti alla voce “BA0210 – Dispositivi medici”. Il fatturato viene certificato e validato dai direttori generali degli Enti; entro novanta giorni dall’ultimazione delle verifiche di coerenza e congruità, sono redatti gli elenchi con le aziende obbligate, con l’indicazione degli importi dovuti, calcolati in proporzione all’incidenza del relativo fatturato annuo, sul totale della spesa regionale.
Le aziende fornitrici saranno tenute al pagamento entro trenta giorni dalla pubblicazione dei provvedimenti, sotto pena di compensazione ex lege dei suddetti debiti con i pagamenti per ulteriori acquisti.
In applicazione della richiamata norma con Decreto del Ministero della Salute (6 luglio 2022) è stato certificato il superamento del tetto di spesa dei dispositivi medici per gli anni 2015, 2016, 2017 e 2018 ed è stata quantificata la quota complessiva di ripiano a livello regionale, da porre a carico delle aziende fornitrici per i medesimi anni. In particolare, partendo dalle quote regionali del Fondo sanitario nazionale, si è accertata (secondo il modello CE) la spesa per dispositivi medici e lo scostamento rispetto al tetto previsto, con relativa indicazione percentuale.
Con Decreto del 06 ottobre 2022, il Ministero della Salute ha determinato le Linee guida per l’emanazione dei provvedimenti regionali e provinciali in tema di ripiano del superamento del tetto per gli anni 2015-2018. Entro novanta giorni da quest’ultimo provvedimento, le regioni quantificano le somme da restituire, poste a carico delle aziende produttrici.
Il sistema del payback obbliga le imprese a restituzione per oltre 2 miliardi di euro corrispondenti alle esigenze per lo sforamento da parte delle Regioni. Alcune Regioni, come già detto, hanno già provveduto all’invio delle richieste di pagamento del payback per il periodo 2015-2018 altre stanno provvedendo.
Le criticità della disciplina e del sistema predisposto
Il regime sin qui richiamato, e il meccanismo prefigurato dalla legge nazionale, pongono significativi dubbi e gravi criticità nel sistema sanitario regionale e nel mercato di riferimento; anzitutto per l’imprevedibilità dei rischi economico-contrattuali legati non più alla normale (e prevedibile) alea, ma ad eventi esterni esogeni, indisponibili sul piano aziendale ed estranei alla responsabilità e alla capacità imprenditoriale degli operatori.
Eventi che possono determinare, in modo imprevedibile, la riduzione dei ricavi a fronte di prestazioni già fornite, a prezzi fortemente competitivi per le offerte al ribasso presentate in sede di gara.
Sul piano economico il payback porrà le imprese in una situazione di grave difficoltà, mettendo a rischio gli equlibri del tessuto lavorativo di comparto, la remunerazione per i beni forniti e per gli investimenti realizzati.
Le aziende potrebbero non riuscire a garantire le successive forniture trovandosi, comunque, in una condizione concorrenziale menomata, chiamate a “rientrare” per somme percepite a titolo di corrispettivo per prodotti acquistati dal servizio sanitario regionale.
Le aziende che “subiscono” il piano di rientro sono poste in una condizione concorrenziale sfavorita, con il pesante fardello delle restituzioni o delle compensazioni forzose. In base ai meccanismi previsti, alcuni operatori dovranno garantire il recupero sulle prossime (e successive) forniture; con evidente favor per le altre imprese non soggette a questo meccanismo. Circostanza che potrà incidere anche sul buon andamento degli incanti e sull’imparzialità delle stazioni appaltanti.
Si possono anche immaginare conseguenze negative sul medio periodo, dal momento che il recupero richiederà – verosimilmente – il sacrificio degli impegni aziendali meno urgenti, a partire dalle spese per innovazione e ricerca. In un comparto come quello in questione, potrebbero venire a mancare proprio gli investimenti più strategici, di ritorno non immediato ma di grandissima rilevanza nel medio termine.
I dubbi di legittimità
L’intervento solleva numerosi dubbi di legittimità costituzionale della disposizione legislative in questione, a partire dal carattere retroattivo che la connota, con palese violazione del principio del giusto procedimento, della leale collaborazione dei diversi livelli di governo e del divieto di leggi provvedimento.
Violazione dell’art.41, Cost.
Le imprese perdono l’evidenza dei corrispettivi e assumono ex post la responsabilità per eventi sui quali non hanno alcuna disponibilità o margine di intervento; gli esiti sono imprevedibili essendo impossibile (o calcolare) in anticipo se (e in che misura) il tetto verrà sforato e quanto dovranno restituire.
Incertezza che mortifica le solide basi dell’autonomia privata, della responsabilità contrattuale con violazione del divieto di irretroattività della legge.
In questo senso, seguendo gli orientamenti della Corte costituzionale, si può ipotizzare la violazione della libertà di iniziativa economica e la garanzia costituzionale della proprietà. La normativa determina infatti una sorta di espropriazione, a fronte della rideterminazione legislativa del corrispettivo, per prestazioni fornite a prezzi concordati contrattualmente. Il corrispettivo da restituire viene sostanzialmente espropriato.
La libertà di iniziativa economica (art.41, Cost.) è violata anche perché la misura in questione pone gli operatori in condizione sfavorevole sul mercato, dovendo essi fare i conti con “nuovi” e imprevedibili obbligazioni restitutorie, con eventuale compensazione forzosa sulle successive forniture.
Sono gravemente lesi i principi dell’autonomia privata e della libertà negoziale, fondamentali corollari della libera iniziativa economica.
Si pone il dubbio sulla compatibilità con il diritto UE di misure che incidono sulla libera concorrenza degli operatori, privati di qualsiasi alternativa, a fronte della riduzione retroattiva dei corrispettivi.
Le gare di appalto sono private di qualsiasi valore dal momento che le condizioni fissate vengono stravolte e modificate in danno degli operatori che già avevano sacrificato parte significativa dei profitti per conquistare il mercato di riferimento.
Si configura un’ipotesi di aiuto di stato vietato in quanto si attribuisce un ingiusto vantaggio agli operatori non impegnati nelle forniture con il servizio sanitario nazionale.
Violazione dell’art. 3, Cost.
L’art. 9 ter, commi 9 e 9-bis, D.L. 19/6/2015| n. 78, contrasta con l’art. 3 della Costituzione in quanto prevede un sistema di ripiano irragionevole e sproporzionato.
Irragionevolezza e sproporzione che si apprezzano anzitutto considerando che la Corte costituzionale ha ritenuto che il legislatore possa imporre alla pubblica amministrazione un dovere di rinegoziazione con le imprese, collegato al diritto di recesso unilaterale (C. Cost. Sent.169 del 2017).
Ciò significa che è incostituzionale il meccanismo (legislativo) che determina la modifica unilaterale e retroattiva delle condizioni contrattuali quando ormai le prestazioni sono state realizzate, senza alcuna alternativa per gli operatori, sostanzialmente espropriati di una parte consistente di corrispettivo. É lo stesso art. 9-ter del D.L. 78-2015 che al comma 1 prevede il meccanismo, ben più ragionevole, della rinegoziazione dei contratti in essere al fine di ridurre i prezzi unitari di fornitura e i volumi di acquisto concordati.
Nel nostro caso manca qualsiasi alternativa, di talché la misura non lascia altra possibilità, con evidente ingiusta rigidità e sproporzione. Appare perciò manifestamente ingiusta ed eccessiva una misura “lineare”, rigida e sconnessa dagli oggetti sui quali essa interviene, senza alcuna considerazione delle differenti situazioni.
In questo senso, la Corte costituzionale ha chiarito che “seppure è vero che non è configurabile, in base alla Costituzione, una riserva di Amministrazione, è altresì vero che lo stesso legislatore, qualora emetta leggi a contenuto provvedimentale, deve applicare con particolare rigore il canone della ragionevolezza, affinché il ricorso a detto tipo di provvedimento non si risolva in modalità per aggirare i principi di eguaglianza e imparzialità” (C. cost. Sent. 137/2009).
Anche la giurisprudenza amministrativa considera ammissibili interventi legislativi sul contratto a condizione che i meccanismi previsti non siano “automatici” o idonei a “stravolgere” le condizioni contrattuali inizialmente concordate.
Sono perciò ammesse misure che risultino circoscritte nel perimetro della normale alea contrattuale, entro il quale deve essere ricompreso anche l’intervento del legislatore (Cons. St. Sent. n.1937/2019).
Nel nostro caso, invece, manca qualsiasi possibilità di valutare in concreto la migliore modalità di rientro, anche al fine di garantire l’efficienza e la funzionalità del servizio sanitario, oppure di modulare le misure sulla base delle diverse categorie di dispositivi e di contratti.
La violazione dell’art. 3, Cost., si lega dunque al peculiare trattamento riservato alla fornitura di “dispositivi medici” e all’assimilazione di situazioni molto diverse, alcune delle quali avrebbero richiesto interventi meno incisivi e pregiudizievoli.
Rilevi altresì L’art. 9-ter, D.L. 78/2015, nemmeno considera le esigenze del servizio, la qualità dei dispositivi e delle aziende fornitrici, lo sconto di volta in volta ottenuto in sede di gara, ecc. A ciò deve aggiungersi la categoria dei dispositivi medici non è una categoria omogena. Tanto pone la questione che un’azienda che ha fornito i propri dispositivi che, nella loro categoria, non hanno superato il tetto di spesa risulta chiamata rimborsare una parte del proprio fatturato per prodotti diversi che invece hanno contribuito al detto superamento.
Si aggiunga infine che spesso alla fornitura del dispositivo medico risulta associata anche la prestazione di un servizio (ad esempio l’assistenza o i corsi di formazione per l’utilizzo del dispositivo) che concorrono alla determinazione del fatturato aziendale nei confronti dell’amministrazione regionale; ma che non risultano distinti nel calcolo della ripartizione.
Violazione dell’art. 97, e dell’art. 28, della Costituzione
La disposizione integra una legge-provvedimento del tutto priva della benché minima istruttoria e della necessaria motivazione. Ciò che pone la norma in contrasto con il principio di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa. É pacifico infatti che la violazione dei principi sull’attività amministrativa può essere invocata anche con riferimento alle leggi-provvedimento quando emerge la relativa arbitrarietà e manifesta irragionevolezza, desumibili anche dalla carenza di ogni valutazione della situazione concreta sulla quale la legge è chiamata ad incidere.
Interpretato letteralmente l’art. 9-ter del D.L. 19/6/2015, n. 78 appare in contrasto con il principio del giusto procedimento che vieta l’adozione in via legislativa di provvedimenti, come quello in questione, che incidono negativamente sui diritti dei destinatari.
Sul punto la Corte costituzionale ha affermato che il procedimento costituisce “aspetto essenziale di una complessiva garanzia costituzionale del cittadino di fronte ad interventi pubblici incidenti sulle sue posizioni soggettive, garanzia che ricomprende sia tutele di carattere giurisdizionale (contro gli atti nei quali si articola il procedimento), sia aspetti partecipativi, attraverso i quali al privato è possibile intervenire nella formazione degli atti, contribuendo a dimensionare la determinazione dell’interesse pubblico” (C. cost. Sent. n.211 del 1998; Sentt. nn. 17 del 1991; 197 del 1994., nn. 57 e 126 del 1995; n. 128 del 1995; n.103 del 2007).
É violata la “riserva di provvedimento e di procedimento amministrativo” che impone, in caso di conseguenze sfavorevoli sui diritti dei cittadini, il rispetto di modalità procedimentali che consentano gli opportuni accertamenti, le necessarie distinzioni e la partecipazione dei privati per la cura dei propri interessi.
Sul piano giuridico-amministrativo, tale meccanismo determina la deresponsabilizzazione degli amministratori pubblici, che vengono sollevati – in misura significativa – dalle conseguenze negative dello sforamento. Esiti legati a una programmazione sanitaria lacunosa che fa affidamento su risorse non disponibili, superiori al fondo sanitario, per poi spostare sulle imprese le esigenze di risanamento. Risulta in questo senso violato il regime della responsabilità dei pubblici amministratori indicato nell’art. 28 della Costituzione.
Violazione degli artt. 117 e 118, Cost.
L’art. 9-ter, D.L. 19/6/2015, n. 78, andrà valutato anche sul piano del rispetto del riparto delle competenze legislative e amministrative tra Stato e Regioni. Queste ultime, invero, sono state private della possibilità di scegliere le modalità di “rientro” sul tetto di spesa; non è previsto un “piano” regionale che consenta di valutare in concreto la migliore modalità di azione, anche al fine di garantire l’efficienza dei servizi pubblici essenziali, di modulare le misure sulla base delle specifiche condizioni territoriali, nonché, eventualmente, delle diverse categorie di forniture e di contratti degli enti del servizio regionale. Tale grave compressione dell’autonomia regionale determina effetti incongrui per l’assimiliazione di situazioni territoriali molto differenti. Basti considerare che tale scelta sarà posta nella responsabilità delle Regioni; essa potrà alimentare un acceso contenzioso con significativi costi e probabili disfunzioni nel servizio sanitario.
Da questo punto di vista, l’illegittimità degli atti si collega alla possibilità (che non si può escludere in via assoluta) di un sistema di ripiano diverso da quello previsto dal richiamato art. 9-ter, commi 9 e 9-bis.
La strategia difensiva
Sul piano della tutela occorre segnalare che le Regioni si sono mosse “in ordine sparso”.
Mentre alcune (ad esempio la Lombardia) hanno già definito con proprio provvedimento l’elenco delle ditte fornitrici soggette al ripiano, comunicando alle aziende la quota singolarmente loro spettante, altre (ad esempio Toscana, Piemonte e Friuli Venezia Giulia) hanno avviato uno specifico procedimento volto alla redazione del decreto per l’individuazione delle aziende fornitrici di dispositivi medici e la quantificazione degli importi dovuti concedendo alle aziende fornitrici di proporre eventuali osservazioni, altre ancora (ad esempio Veneto) ad oggi non risulta abbiano provveduto o come la Sardegna abbia provveduto a sospendere l’efficacia della determinazione per la richiesta di pagamento e la conseguente compensazione.
Da tale frastagliata situazione emerge la necessità di esaminare autonomamente i singoli provvedimenti regionali andando a censurare gli atti dirigenziali che determinano le obbligazioni restitutorie in capo alle aziende anche dal punto di vista procedimentale qualora non fossero rispettate le regole sul procedimento amministrativo (L.241/90) e non venissero assicurate alle imprese le facoltà partecipative previste dalla legge, come, ad esempio, possibilità di presentare memorie e osservazioni. In ogni caso andranno verificati i calcoli compiuti, controllando la correttezza del punto di partenza e del risultato.
Nei ricorsi, che andranno proposti nel termine di 60 giorni dalla notifica del provvedimento dirigenziale avanti ai TAR regionali competenti, si contesterà la legittimità dei decreti ministeriali presupposti, sotto i diversi profili sopra illustrati prendendo in considerazione le questioni di legittimità costituzionale sopra prospettate.
Il tema è di alta complessità e dovrà essere sviluppato secondo linee difensive articolate e approfondite anche al fine di proporre un eventuale istanza cautelare che andrà esaminata alla luce dell’incidenza della richiesta restitutoria sulla singola azienda. Rilevi infine come gli emendamenti richiesti alla legge di bilancio in questi giorni non prevedano la cancellazione del payback sui dispositivi medici ma la sola sospensione sino al 31.12.2023 in attesa della definizione di nuovi criteri di riparto della spesa o una “manutenzione della norma in essere – Ministro Giorgetti 14.12.2022 in risposta al question time odierno ”. Ciò significa che comunque, anche con nuovi criteri, la restituzione dovrà avvenire. Tanto induce a ritenere preferibile procedere con l’impugnazione in via cautelativa.